Indice degli argomenti

  • Argomento 2

    La Pro Ctesiphonte di Leonardo Bruni

            La traduzione di Leonardo Bruni dell’orazione “Pro Ctesiphonte” di Demostene ha avuto una grande diffusione in manoscritti e stampe ed ha suscitato emulazione da parte di molti umanisti, alcuni anonimi, altri noti come Lorenzo Valla e Giorgio Trapezunzio. Leonardo Bruni è stato tra i primi umanisti a tradurre opere di autori greci in latino: filosofi, storici, oratori , e a diffondere la conoscenza del greco nell’Italia del primo Quattrocento. Allievo di Manuele Crisolora scrisse un trattatello sulla corretta traduzione, il De interpretatione recta, in cui seguendo i precetti del suo maestro raccomandava una traduzione fedele ma che conservasse l’ “ornato” dell’originale (vd. Leonardo Bruni, Sulla perfetta traduzione, a c. di P. Viti, Napoli 2004).

         Il testo della “Pro Ctesiphonte” bruniana è tramandato in circa 60 testimoni tra manoscritti e stampe a cui se ne aggiungono alcuni identificati negli ultimi anni. Un esame completo dell’orazione presente in cinque manoscritti, scelti seguendo il criterio del raggruppamento della “Pro Ctesiphonte” con altre traduzioni di Demostene eseguite dal Bruni, e la corrispondente analisi del testo contenuto in tutti gli altri testimoni condotta sulla base di alcuni loci critici (32) ha permesso di individuare due redazioni della traduzione (M. Accame Lanzillotta, Leonardo Bruni traduttore di Demostene: la ‘Pro Ctesiphonte’, Genova 1986). L’edizione di traduzioni pone spesso problemi complessi che conducono l’editore ad assumere scelte diverse da quelle destinate a testi originali (vd. M. Morani, Linguistica, filologia e traduzioni, Atti del VII Convegno Internazionale di Linguisti, Milano, 12-14 settembre 1984, Brescia 1987, pp. 397-403). In questo caso ci troviamo di fronte ad una tradizione manoscritta in cui ha largamente operato la trasmissione orizzontale, come si può constatare in alcuni codici (Laurenziano Gaddi 90, 61 e S. Daniele del Friuli, Bibl. Comunale Guarneriana 100) che presentano correzioni e varianti marginali. In particolare un codice, Firenze Bibl. Nazionale centrale II II 65 (= N) mostra di essere stato trascritto da un originale che presentava già varianti. Un’ulteriore difficoltà è posta dalla presenza di correzioni e ritocchi dell’autore che possono essere stati eseguiti talvolta direttamente sul testo della prima redazione, determinando situazioni poco chiare per i copisti che sono intervenuti con diverse interpretazioni.

         Nel laboratorio si propone ai dottorandi di restituire alcuni passi dell’orazione basandosi sul codice Firenze Bibl. Nazionale centrale II II 65 (= N) che dovrà essere collazionato con gli incunaboli del 1488 (Venezia) e del 1495 (Venezia), e di accompagnare il testo con un apparato critico e con un commento in cui sono discusse le varianti. Particolare attenzione deve essere rivolta alle correzioni e aggiunte poste per lo più in margine da un secondo copista di N (= N2) il quale apporta in alcuni casi miglioramenti alla versione del Bruni.

  • Argomento 3

    Le imagini de i dei di Vincenzo Cartari

             “Le Imagini de i dei de gli antichi” di Vincenzo Cartari rappresentano uno dei trattati mitografici che, anche più delle opere di Natale Conti e di Giglio Gregorio Giraldi, hanno avuto un successo eccezionale nel corso del Cinquecento e del Seicento. L’opera suscitò non solo l’interesse degli appassionati di mitologia, ma venne usata come un vero e proprio manuale di consultazione per le arti figurative ad uso dei pittori e degli artisti che volevano trovare materiale mitologico da rielaborare. Furono circa venticinque le edizioni pubblicate di cui undici in italiano, cinque in latino, altre in inglese, francese e tedesco (vd. C. Volpi, Le immagini degli dei di Vincenzo Cartari, Roma 1996; V. Cartari, Le imagini de i dei de gli antichi, a c. di G. Auzzas, Vicenza 1996). Numerose sono le fonti classiche di carattere prevalentemente letterario accanto alle quali si nota la presenza di mitografi tardo-antichi e medievali, come per es. Claudiano, Marziano Capella, e Boccaccio della Genealogia deorum gentilium (vd. M. Palma, voce Cartari, Vincenzo in Dizionario biografico degli Italiani, 20, 1970, pp. 793-796). Nella prima edizione delle Imagini apparsa a Venezia nel 1556 per i tipi di Francesco Marcolini non c’erano le figure che accompagneranno il testo e anzi costituiranno una parte integrativa delle descrizioni degli dei nell’edizione del 1471 corredata dalle illustrazioni eseguite da Bolognino Zaltieri. Nell’edizione del 1615, uscita a Padova presso il tipografo Pietro Paolo Tozzi e curata dall’erudito Lorenzo Pignoria, compaiono le xilografie di Filippo Ferroverde: l’edizione è definita “novissima” e non è celato l’intento di correggere i difetti dell’edizione del 1571 e di aggiornare l’opera.

          L’edizione del 1571 (uscita a Venezia presso Vincenzo Valgrisi e di nuovo a Venezia presso Giordano Ziletti) presenta vari ritocchi dell’autore (passi inseriti al fine di rendere più chiaro il testo soprattutto in merito alle fonti, altri passi omessi) per cui sembra opportuno evitare di scegliere come testimone da collazionare l’editio princeps del 1556 il cui testo dovrebbe essere restituito indipendentemente o per lo meno dovrebbero essere segnalate le varianti più significative in un capitolo dell’introduzione all’edizione critica.

          Nel laboratorio si propone ai dottorandi di restituire alcuni passi delle Imagini basandosi su quattro edizioni antiche: ed. del 1571, Venezia, Giordano Ziletti; ed. del 1581, Lione, Stefano Michele; ed. del 1609, Venezia, Evangelista Deuchino e Giovan Battista Pulciani; ed. del 1615, Padova, Pietro Paolo Tozzi. Il testo dovrà essere corredato da un apparato critico e da una sezione in cui sono individuate le fonti classiche e medievali utilizzate dall’autore. Vanno inoltre notati i casi in cui la narrazione di Cartari si allontana del tutto o in parte dalla fonte da lui citata.

  • Argomento 4

    Pomponio Leto

     Tra gli umanisti che insegnarono nella seconda metà del Quattrocento a Roma presso lo Studium Urbis ha avuto un ruolo importante Pomponio Leto. Fu capo dell’Accademia romana di cui fecero parte i suoi allievi e numerosi dotti uniti dal desiderio di recuperare i valori dell’antichità non solo dal punto di vista letterario, ma anche nelle pratiche civili e negli ideali a cui improntare i principi di una nuova società rischiando inconsapevolmente di allontanarsi dalla realtà storica del proprio tempo (vd. M. Accame, Pomponio Leto. Vita e insegnamento, Tivoli 2008). La fama di Pomponio è legata soprattutto al suo insegnamento come è testimoniato dai suoi allievi, Michele Ferno e Pietro Marso, da amici e colleghi. La lezione di un umanista consisteva quasi sempre nel commento di un autore classico in cui il professore non si limitava a spiegare il passo dell’opera antica, ma allargava le sue considerazioni a vari argomenti rivelando la sua formazione storico-letteraria, ma introducendo anche notizie tratte da esperienze personali di vita. Le lezioni di Pomponio abbondano di questi riferimenti autobiografici: si pensi per es. alle annotazioni frutto del suo viaggio in Scizia di cui sono purtroppo andati perduti i Commentariola ma che possiamo ricavare in parte dai corsi su Virgilio e Valerio Flacco (vd. M. Accame, Note scite nei commenti di Pomponio Leto, in Pomponio Leto tra identità locale e cultura internazionale, Atti del convegno internazionale (Teggiano, 3-5 ottobre 2008), Roma 2011, pp. 39-55).

          è quindi importante per ricostruire il metodo d’insegnamento adottato da Pomponio lo studio dei suoi corsi universitari che sono stati trasmessi negli appunti degli alunni. Alcuni di questi dictata (termine con cui venivano designate le reportationes universitarie in ambiente romano) sono conservati in annotazioni originali, prese direttamente dagli alunni che ascoltavano la viva voce del maestro. Si tratta quindi di un testo trasmesso nell’oralità e che pone problemi particolari a chi attende alla sua edizione: da una parte rappresentano l’ “autografo” di un allievo, che può essere anche una persona nota, di cui documentano la cultura, il livello d’istruzione e le abitudini grafiche, dall’altra sono il documento di un testo nato per essere orale. Per l’edizione di questi testi, come dichiara anche Jacqueline Hamesse, si debbono seguire criteri diversi da quelli tradizionali. Anche nel caso di corsi tenuti nello stesso anno accademico e tramandati dagli appunti di due allievi diversi che avevano assistito alla medesima lezione (es. il redattore del corso varroniano conservato nel codice Vat. lat. 3415 e quello del medesimo corso trasmesso nel codice Escurialense g III 27) non è possibile collazionare i due testi. Ogni dictatum presenta infatti caratteristiche tali (diversi errori di udito, diverse omissioni, diverse correzioni eseguite direttamente durante l’annotazione) da farlo ritenere un testimone autonomo che l’editore deve pubblicare indipendentemente dall’altro dictatum.

          Nel laboratorio si propone ai dottorandi di restituire il dictatum originale riguardante il corso sul De lingua Latina di Varrone tenuto da Pomponio nell’a, a. 1484-85 che è tramandato nel codice Vat. lat. 3415. è opportuno tenere presente un’edizione moderna del De lingua Latina (quella curata da R. G. Kent oppure da A. Traglia oppure da G. Goetz e F. Schoell). Si dovrà accompagnare il testo restituito con un apparato critico e creare una sezione di apparato in cui sono individuati i luoghi delle fonti citate da Pomponio durante la lezione.

         

  • Argomento 5